Nova il versionario latino moderno, Franco Catanzaro: “La mia idea”

Franco Catanzaro propone il suo Nova il versionario latino moderno, edito da Santelli Editore. Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo in esclusiva.

Come l’è venuta l’idea di tradurre in latino grandi classici della letteratura moderna?

In realtà, la traduzione di opere moderne in lingua latina è un mio sogno da molto tempo, che ho vagheggiato a lungo grazie alla lettura – sia in originale che in traduzione nella lingua di Cesare – di Harry Potter, ad opera di un illustrissimo professore dell’Eton College, il grande Peter Needham. Ogni volta che mi imbattevo in articoli di giornale che raccontavano, tra lo stupore e il divertimento, di una traduzione in latino di un libro, rimanevo stupito riguardo all’eleganza con cui erano stati resi alcuni passaggi, quasi che con il latino ricevessero una nuova vita. Per questo motivo ho deciso di cimentarmi in quest’opera, sperando di aver reso i giusti onori sia ai migliori latinisti, ma anche alle intenzioni del testo originale.

La sua opera sembra rivolgersi ai più giovani, è un tentativo di presentare in modo innovativo il latino e allontanarlo da un immaginario scolastico che lo rende ostico agli studenti da sempre. Cosa può dare ai ragazzi di oggi lo studio di una lingua così antica?

A mio avviso, il rischio maggiore consiste nel rendere una lingua, quale il latino, una mera applicazione di regole grammaticali, stilistiche e sintattiche, al solo scopo di renderle conoscibili e dimenticabili, non appena non ve ne sia più necessità. Se lo scopo di una lingua è comunicare una serie di fatti ad un ricevente che conosce il nostro stesso codice, allora la perdita della lingua latina comporterà, per quei testi che non godono di traduzioni facilmente accessibili, un oblio della loro materia: sarebbe quasi un delitto, infatti, privarsi della varietà stilistica offerta dai grandi autori latini, se volessimo incasellarne le esperienze in una serie di versioni da tradurre, con angoscia e pena, durante le verifiche!

Lei è stato uno di questi studenti che ai tempi della scuola trovava le lettere classiche noiose o è stato proprio in quel periodo che è nata la sua passione per queste materie?

Da studente, non riuscivo a capacitarmi del fatto che le lettere classiche fossero insegnate solo per risolvere meccanicamente una versione dopo l’altra: per questo motivo, quando sentivo che l’argomento trattato in un esercizio potesse essere più interessante di quanto proposto, allora cercavo il passo dell’autore, per capire il contesto di ciò che avevo tradotto come esercizio. Ricordo ancora, con un velo di rammarico, il tenace lavoro di traduzione, con tutti i miei compagni, sull’Eracle di Euripide: ho certamente apprezzato la volontà di rendere omaggio all’intero testo del tragediografo, ma ritengo che, forse, si potrebbe trarre un beneficio diverso, coinvolgendo lo studente a livello personale nella modifica o nell’interpretazione scenica dell’opera in questione. Se il testo è nato per entusiasmare, vorrei che lo facesse di più: quante opere teatrali, scritte in lingua straniera, hanno calcato con successo le scene d’Italia?

Qual è l’opera moderna che ha tradotto con più entusiasmo e perché?

Indubbiamente, ho trovato sublime il modo in cui Mary Shelley ha reso universale e senza tempo la costruzione del suo Frankenstein: poche opere mi hanno colpito in modo così profondo, per la lucidità dello stile e per la capacità dell’autrice di far sentire sempre presente la drammaticità della scena, tratteggiandola sempre con un grazioso acume. La penna di Mary Shelley è stata intinta in un miele dolce e amaro al tempo stesso, e posso dirmi onorato di aver potuto lavorare sopra questa pietra miliare della letteratura.

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